Quei lunghissimi 11 metri, sotto il sole sudafricano (Italia preparati per il 2010!)

Ok, ragazzi, fa caldo, avete giocato per due ore e siamo arrivati ai rigori. Qui e’ dove vinciamo. Chi tira? – sta chiedendo Charl, l’allenatore

Ci sono ancora 30 gradi, anche se il sole ha iniziato a scendere. I tifosi al seguito, in attesa dell’eccitante (per loro) lotteria dei rigori, stanno urlando cori che sinceramente non riesco a capire. So che Lindsey e la sua famiglia siedono nell’angolo lontano, ma non mi volto a salutarli.

The UJ stadium view from the stands

Ready to play

Penso a quando ho tirato l’ultimo rigore. Forse nel 96, o nel 97. Una vita fa. Di tutti i rigori tirati con la maglia dell’Oratorio o dell’AC Canegrate, ne ho sbagliato solo uno, parato da Refraschini un’amichevole (era il mio primo rigore tra l’altro). A livello minore, ho sbagliato il rigore nella finale di quello che era un torneo tenuto in alta considerazione, visto il numero di giocatori di calcio che passavano il pomeriggi li’: il torneo estivo dell’oratorio.
Me lo aveva parato ancora Refraschini, maledetto.

“I’ll take one”. Credo che la mia bocca si sia aperta prima ancora che potessi pensare. Nessuno vuole mai tirare un rigore in finale. Si vede nelle facce. Tutti sono a terra, boccheggiano, e si toccano i muscoli come se ora fossero cosi’ malandati da non riuscire a calciare un pallone verso la porta.

Altre 4 voci si uniscono alla mia. Poi piu’ nessuno. Non ci sono altri compagni che vogliono tirare il rigore. Siamo io, Mike, entrato nel secondo tempo, Stoj, il freddo bulgaro, Isaac, uno dei due neri nella nostra squadra e Dixon, anche lui entrato nel secondo tempo.

Capisco chi non vuole tirare. Se questa fosse la mia prima finale, non lo farei neppure io. Ma di finali ne ho perse cosi’ tante che sono semplicemente stufo. Olimpiade dell’alto milanese (un 1-4 con il comune di Arese), vari tornei con l’OSL e l’AC Canegrate, mentre a Londra mi sono sempre fermato prima delle semifinali.
Forse tra le vittorie dovrei contare quel torneo estivo a meta’ anni 90, vinto per 6-0 sotto un diluvio universale con nessuno a vederci. Era un torneo a 7 pero’, e non l’ho mai considerato (come il calcio a 5).

Guardo Charles, che, con il suo strano accento di Cape Town, mi dice che proprio non ha le forze per guardare i rigori. L’allenatore invece si avvicina e ordina a tutti di tenere la testa alta e non chiudere gli occhi nella sequenza che partira’ tra 5 minuti.

I giocatori in panchina, sostituiti nel secondo tempo, sono distrutti. Tra loro ci sono almeno 2 rigoristi, ma nessuno si aspettava di arrivare a questo punto.

La partita l’avevamo vinta, poi persa, in una successione di colpi di scena degno del miglior film sportivo americano.
2 ore prima entravamo nello stadio come underdogs, contro una squadra (Crusaders) arrivata molto piu’ in alto di noi nella classifica e che ci ha aveva battuto due volte, per 3-1 e 4-2.

Noi in una settimana avevamo perso il mio compagno di centrocampo (Wayne, per motivi personali) e la nostra ala destra (Tshibi, impegnato in una finale di cricket con la scuola, obbligato ad andarci, stranezze locali).

Eppure in quei primi 45 minuti, sotto un sole impietoso, avevamo capito due cose: 1) potevamo vincere 2) la partita non sarebbe terminata con 22 giocatori in campo.
Il possesso di palla era nostro per la maggior parte del tempo, e l’arbitro aveva deciso di sanzionare qualsiasi intervento.
Passati in vantaggio al 20′ (rubo palla a centrocampo, lancio Mark che passa a Malcolm, il nostro nanetto nero, che segna), solo 5 minuti piu’ tardi avevo preso un cartellino giallo per un fallo che normalmente sarebbe stato sanzionato con un avvertimento.
Giocare per 100 minuti sapendo di non poter commettere tackle o falli tattici era stato un bel problema per me…

L’arbitro poi si era scatenato, espellendo per proteste uno di loro dopo altri 5 cartellini gialli negli ultimi 10 minuti. Molti esagerati.
Il secondo tempo era iniziato come il primo, noi in controllo e loro disperati a trovare il goal del pareggio, con un uomo in meno. Purtroppo era successo, e su uno svarione della difesa, dopo un’ora pareggiavano i conti.

La partita di colpo si trasformava. Una nostra traversa, su punizione, altri cartellini gialli (sarenno 3 per noi e 8 + 2 rossi per loro alla fine….) e solita violenza dettata dal nervosismo.

Nei supplementari per ben 29 minuti succedeva poco. Fino all’ultimo minuto, quando uno dei loro cadeva in area. L’arbitro prima lo ammoniva per simulazione (espellendolo nel processo) per poi consultarsi col guardalinee e assegnare il rigore.

La partita era persa in quel momento. Ultimo minuto, rigore, e loro segnano. Io guardavo verso la tribuna e probabilmente stavo iniziando a piangere. Loro stavano gia’ festeggiano quando l’arbitro fischia e indica ancora il dischetto!
A quanto pare uno dei loro era entrato in area e il rigore andava ripetuto.

Se siamo finiti ai rigori, potete immaginare cosa sia’ successo. Rob aveva parato il rigore, proprio mentre l’arbitro fischiava la fine dei supplementari.

Con nella mente le ultime 2 ore, iniziamo a camminare verso il cerchio del centrocampo. 9 loro e 9 noi (ai rigori il numero deve essere pari, cosi’ 2 dei nostri vengono lasciati ai margini del campo).

Veniamo separati ulteriormente. 5 di noi da una parte, 5 di loro, e i restanti 8 dietro, a guardare.

Decidono di tirare prima loro, e segnano. Tocca a Mike, che si avvicina al dischetto, e segna, anche se il portiere tocca.
Tocca ancora a loro, e stavolta sbagliano, con Rob che para un altro rigore.

Capisco che tocca a me.
Tento di ricordarmi quello che il mister ci ha detto (scegliete un angolo e non cambiate mai idea) e inizio a camminare, da solo, verso il dischetto.
Dietro di me, i miei compagni.
Sugli spalti, Lindsey con la famiglia al completo, e i tifosi al seguito, ormai ubriachi, che tentano di urlare il mio nome (sento “olaaaaaaf, olaaaaaaaaf” sulle note di volare oohhh).

Metto il pallone e mi accorgo che, tutto sommato, sono solo 11 metri e la porta sembra davvero larga. Continuo a guardare l’angolo alla sinistra del portiere (il piu’ facile se si tira di destro) e posiziono il mio corpo per una breve rincorsa.
L’arbitro fischia, incrocio il tiro, portiere da una parte, pallone 7 metri dall’altra.
Sento l’urlo del pubblico, e urlo un “yes” sbattendo il pugno, per poi tornare dai miei compagni, al piccolo trotto.

Non e’ ancora finita. Tocca a loro. Ma sbagliano ancora! Rob para. E’ il turno di Stoj, che la infila in una posizione impossibile. Siamo 3-1 e se sbagliano vinciamo.

Il pallone tirato dal loro ultimo giocatore e’ ancora in orbita gravitazionale e io sto gia’ correndo, con tutti gli altri, verso Rob, che viene sommerso da una ventina di persone (incluso qualche tifoso che ha scavalcato le transenne).

Non mi sento cosi’ felice su un campo da calcio dal 2003, quando avevo vinto il campionato a Londra. Ma qui e’ diverso, qui e’ speciale. E’ una finale, Lindsey e’ venuta a vedermi e tra poco saliremo le gradinate per ritirare la medaglia e la coppa.

I momenti di gioia sono fuori di testa, ma dobbiamo applaudire gli avversari mentre salgono e ritirano la medaglia d’argento. Poi tocca a noi. Saliamo (non prima che io vada ad abbracciare Lindsey in tribuna), ritiriamo la medaglia, e il nostro capitano alza la coppa.

Me hugging our keeper

It's a medal, finally!

Time to lift the cup!

My winners medal

Poi, e’ tutto sfuocato. Mi ricordo litri di birra e vodka finiti nella coppa e bevuti sotto il sole, mezzinudi, senza fermarci mai. Mi ricordo l’uscita dalla stadio con mia moglie ad aspettarmi per portarmi a casa.

So che non le piace quando sono ubriaco, ma capisce, e continua a raccontarmi come la partita sia stata davvero lunga ma troppo emozionante per lei.

Dopo un po’ mi addormento in macchina, mi risveglio, e torno in coma.

Chiudo gli occhi e ripenso velocemente alla stagione, alla semifinale vinta con quel goal da 30 metri. Penso alle finali perse, alle lacrime da bambino, ma riesco a pensare solo una cosa: se Refraschini era qui, mi avrebbe parato quel rigore.

Poi richiudo gli occhi, e mi sveglio solo il giorno dopo, con la medaglia ancora al collo.

Faticando verso la finale

Il 24 qui e’ stata festa nazionale (Heritage day o qualcosa del genere), e a quanto pare sono rassegnato a soffrire in quella data. Basta guardare cos’era successo l’anno scorso

Con la finale di coppa posticipata all’11 di Ottobre (allo stadio dell’Universita’ di Johannesburg), la necessita’ di arrivare a quella data in forma mi ha portata ad iscrivermi (insieme alla famiglia di Lindsey) alla 10km locale, "La Piatta" (o Flat One).
Avevo accettato l’iscrizione giusto per tenermi in forma. 10km posso correrli con un tempo decente senza neppure allenarmi. Inoltre, con un nome cosi’ attraente, gia’ mi immaginavo una sgroppata lungo lo stradone…

Partenza ai soliti orari pazzeschi sudafricani (6 di mattina, perche’ poi fa troppo caldo, con relativa sveglia alle 5) e via lungo lo stradone, gia’ trafficato, per ben 1 chilometro. Poi, curva a sinistra.

Poi salita. Salita. Salita. Discesa. Salita. Salita. Salita. Discesa ripida. Salita. Gran premio della montagna. Salita. Discesa lunghissima. Salita. Salita. Altro gran premio della montagna. Discesa finale (che ti uccide).

At the Flat One race

foto fatta un’ora dopo l’arrivo, tanto per avere un ricordo (montagne affrontate sullo sfondo)

Il tempo finale e’ stato decente (48 minuti e 56 secondi, sotto i 50 minuti che considero il minimo sufficiente), ma,  lungo il percorso, insieme alla solita acqua in sacchettini di plastica, continuavano a fornirci coca cola, con un incredibile numero di rutti successivo alla stazione di beveraggio, e mal di pancia finale. Mai visto prima.

Immagino che la maggior parte dei corridori, visto che avevano sborsato la bellezza di 3.5 euro per correre, in puro stile sudafricano (soprattutto se neri) si saranno fermati per bere il piu’ possibile e recuperare sui costi, vista anche l’assenza di qualsiasi medaglia all’arrivo (una grossa delusione).

Il resto della truppa? Jill e David hanno finito i 10km in un’ora e dieci, Lindsey e sua madre intorno all’ora e mezzo.
Io ero da tempo seduto sull’erba, sotto il sole, a rilassarmi e pensare che, tutto sommato, giornate cosi’ sono fatte per stare fuori. Poi, tornato a casa, ho ovviamente dormito fino alle 12…

Notti magiche

The final score in the semifinal

La partita e’ iniziata da 10 minuti. La mia squadra gioca in casa e il pubblico, nonostante la serata decisamente piu’ fredda rispetto agli ultimi giorni, tifa e urla, forse per riscaldarsi.

Nel pubblico ci sono le categorie giovanili, 8 anni in su, che hanno finito gli allenamenti solo mezz’ora prima e hanno chiesto ai genitori di stare a guardare la partita, almeno il primo tempo please.

Vedo anche gli under 17, che invece di allenarsi hanno deciso di guardare l’incontro. Dall’altra parte della tribunetta, ci sono le solite facce dei dirigenti che il martedi’ sera si riuniscono per discutere la settimana successiva.

Stiamo giocano bene, nonostante l’evidente nervosismo di entrambe le squadre. A centrocampo ho gia’ fatto capire che non si passa. Tutte le palle sono mie.

Rimessa laterale. Stoj (il nostro giocatore bulgaro) appoggia a Wayne, che gioca a centrocampo con me. Indeciso sul da farsi, decide di passarmi la palla. Sono intorno alla tre quarti, circa 25 metri dalla porta. Qualcuno tenta di contrastarmi ma finisce a terra, alla Mark Lenders.

Uno, due tocchi e decido di tirare.

Certe volte sai che stai per segnare appena vedi la palla partire. E’ un pallone duro, per giocatori duri.
La palla va semplicemente dritta,  il tiro e’ potente e il portiere non si muove nemmeno.

Prima che entri all’incrocio mi volto e allargo le braccia per accogliere l’abbraccio dei compagni di squadra.

1-0 e la semifinale inizia alla grande.

La partita prosegue, il Randburg prende due pali ma stavolta non si passa piu’ .
In contropiede segnamo il 2-0 a 10 minuti dalla fine e siamo in finale.

Intanto i bambini sono rimasti coi genitori fino alla fine dell’incontro, finito alle 9 e mezza.

Festeggiano sugli spalti e noi andiamo a battere un cinque con qualche decina di tifosi rimasti fino alle fine, da veri sboroni.

Vengo premiato come man of the match (per la settima o ottava volta questa stagione) e intanto tento di ricordarmi l’ultima volta che arrivai a giocarmi una finale in qualche torneo o coppa.

A Londra, nonostante le due coppe disponibili ogni anno, non mi ero mai spinto oltre i quarti di finale.

In Italia? Escludendo una finale di un torneo a 6 da allievo (persa 3-5 col Legnano, nonostante i due goal messi a segno), l’ultima volta ero un giovanissimo, ed era la finale dell’Olimpiade dell’Alto Milanese, persa 4-1 contro Arese (la mia memoria calcistica e’ fantastica).
Avevo quanti anni? Probabilmente 14 o 15. Si parla di 15 anni fa.
Una vita.

E sono dovuto emigrare in Sudafrica per avere la rivincita. Sono in finale. E voglio vincerla.

Calciatore, dopo i 30?

Ogni tanto mi chiedo ancora se riusciro’ a giocare a calcio per altri 10 anni, come mi ero sempre promesso.

Sara’ il periodo che non mi lascia tempo libero per concentrarmi su nient’altro che matrimonio e pratiche per la casa (mi sembra di essere tornato in Italia per quanto riguarda la burocrazia…), sara’ il fatto che ricominciare a giocare in una squadra totalmente nuova, dove io sono uno dei pochi stranieri e over 30, sara’ che ormai ricorro sistematicamente al fallo tattico se qualcuno mi supera, ma ogni tanto mi sento davvero vecchio.

Il problema e’ sapere che nelle gambe e nella testa ho ancora tanto da dare, specialmente in un paese che sta andando all’indietro come il SudAfrica (calcisticamente parlando sono zero, politicamente parlando sono 0 virgola 1 – a presto un bell’articolo che ovviamente finira’ con aggiungermi l’etichetta di razzista a quella di stronzo), ma pressioni esterne, futura moglie e vita futura in generale, pressano probabilmente cercando di convincermi che forse e’ tempo di smettere.

Peccato non capiscano.

Peccato che neppure io riesca ad esprimere in inglese il significato che ha il calcio per me. Forse frasi del tipo "Per tre volte alla settimana tu non conti niente, ci sono solo io, il pallone, e altri 11 avversari da uccidere" ogni tanto dovrei tenermele nei polmoni, evitando quell’ultima spinta che porta il fiato a modulare tramite corde vocali frasi di cui poi ci si pente.

E in queste cose sono un maestro.

E no Paolo, giocare a calcetto e’ per gay. Giocare negli over-35 e’ per vecchi.

L’esordio

Chiunque abbia mai giocato a calcio (non la versione gay a 5 indoor) conosce benissimo le sensazioni del risveglio il giorno successivo alla prima dura partita stagionale: muscoli rigidi, acido lattico in giro per il corpo, varie parti del corpo piene di tagli e qualche litro di sangue in meno
Personalmente se non vedo sangue sulle gambe o in faccia quando finisco la partita sono sempre deluso.

Ieri ho esordito nella lega sudafricana. Sotto falso nome ovviamente – Karl Henriksonn (non hanno fatto in tempo a farmi il cartellino), e solo nel secondo tempo, dopo che un virus intestinale che mi affligge da 3 giorni mi ha fatto vomitare negli spogliatoi. Avevo nelle gambe solo 5 allenamenti dopo una pausa di 3 mesi.

Purtroppo ieri era anche l’ultima partita di campionato. Qui il campionato inizia a marzo per finire a settembre. Esiste una summer league, ma non ho idea se la squadra per cui gioco (Panorama Sports Club) partecipera’ con una selezione. L’idea di giocare con 40 gradi poi non mi alletta troppo.

Dopo anni di dilettantismo allo stato puro (organizzativo e non) a Londra, e’ stato un piacere riscoprire il gusto di avere dietro un’organizzazione sportiva decente, che fornisce al tesserato tutto quello di cui ha bisogno, che gioca in un campo sportivo proprio e che ha al seguito un centinaio di tifosi.

Ho giocato per la selezione "b" (qui hanno 6 senior teams e una decina di squadra giovanili), alle 19.00, su un campo di erba cosi’ secca che purtroppo blocca ogni tentativo di scivolata. Zero attrito e fastidiose sbucciature ovunque.

Il risultato finale e’ stato una sonora sconfitta (3-0), ma il mio esordio e’ stato positivo.
Col mio primo tocco ho mandato un giocatore davanti al portiere (peccato abbia sbagliato), col secondo ho colpito la traversa con un tiro al volo e col terzo ho ucciso qualcuno che ha provato a rubarmi il pallone.
Poi la squadra e’ naufragata e io sono stato colpito da una gomitata volante in bocca.
Ovviamente, nonostante il dolore, il sangue e la paralisi facciale ho fatto finta di niente per poi bestemmiare una volta a casa.

Peccato nessuno conoscesse il mio nome. Solo Lindsey, infreddolita in tribuna, sapeva chi era quel giocatore entrato al 60′ in campo. E conoscendola, 2 ore e mezzo da sola in tribuna circondata da tifosi che parlano solo di calcio, deve essere stata una tortura. Cosa non si fa per amore.