Sono appena uscito dal lutto e questo e’ tutto quello che ho da scrivere prima di tornare ai soliti aggiornamenti settimanali:
Cara Italia (o almeno quella privilegiata elite che veste di azzurro, viene strapagata e ci rappresenta dal quel 15 Maggio del 1910, quando battemmo la Francia 6-2 nel match inaugurale) non ti scrivo mai e la maggior parte delle volte la nostra relazione e’ protetta da una televisione che ci evita il diretto contatto, ma non lo scambio di emozioni, quasi come un goldone catodico.
Mi hai fatto piangere nel 1990, con quei rigori maledetti a Napoli, casa di Maradona. Avevo 13 anni e pensavo che, giocando in casa con siciliano in forma, avremmo vinto i mondiali. Mi hai fatto ancora piangere nel 1994. Come? Ancora con quei rigori. Stavolta in televisione ti ho visto piangere pure io, nella forma di quel numero 6 con la faccia da cinquantenne sulle spalle di un allenatore pelato. Quel numero 6 che per anni ho semplicemente chiamato "il capitano" quando indossava una maglia a strisce verticali rossonere.
Sinceramente poi, anche quando il capitano era un reduce del 1982 (scusa Italia, ero troppo piccolo per ricordarmi le feste), non mi interessava che colori indossava da Settembre a Giugno. Nero e azzurro, bianco e nero, blucerchiato, giallo e rosso. Poco importava. Alla fine, una volta indossata quella maglia azzurra, erano tutti uguali per me.
Dove’ero? Ah, il 1998. Perdere (ai rigori) coi padroni di casa non mi aveva ridotto in lacrime (ero gia’ grandicello allora) ma mi aveva provocato un po’ di rabbia svanita una settimana dopo. Dopotutto, essere sconfitti dai futuri campioni del mondo, nonostante, essendo vicini di casa, nessuno poteva sopportarli, non mi aveva gettato nello sconforto.
In quei strani mondiali dall’altra parte del mondo, nel 2002, mi ero ridotto a bere birra a Londra (mi ero trasferito nel frattempo) e condividere lo sconforto dell’eliminazione, ancora dai padroni di casa, con altri emigrati italiani e poi con gli inglesi, eliminati da una punizione da 40 metri di un calciatore brasiliano che mi ricorda Ciuchino di Shrek (che sarebbe poi finito a indossare da Settembre a Giugno i miei colori, ma questa e’ un’altra storia).
Il 2006 fu il nostro anno magico. Campioni del mondo (ai rigori! Contro gli odiati vicini di casa! Pensa un po’) e grande festa a Londra. Avevo sempre invidiato la generazione di mio padre, capace di gustarsi una vittoria mondiale. Mi sentivo quasi come un inglese, i cui ricordi di vittorie mondiali si fermano a cronache via radio o immagini in bianco e nero.
Un po’ come quella squadra nerazzurra, che pero’ ultimamente e’ riuscita a vincere, mostrandoti anche come ci si difende.
Peccato che, nonostante avesse sul petto uno scudetto con i colori della bandiera che ti rappresenta, tu non hai potuto prenderne neanche uno di giocatore, visto che sotto quei colori nero e azzurri i loro cuori avevano colori lontano dal verde, bianco e rosso (e azzurro).
Quando avevo saputo (nel 2004) che i prossimi mondiali si sarebbero svolti in Sudafrica, ero un po’ timoroso. Non sapevo niente di quella nazione, tranne qualche notizia su Mandela e poco altro. Di campioni dal Sudafrica ne erano usciti pochi (o nessuno), e viaggiare li’ per i soliti tifosi che ti seguono dovunque (anche in Giappone e Sud Corea), sarebbe stato davvero costoso. Senza contare che, se le lezioni di geografia alle medie non si sbagliavano, li’ sarebbe stato inverno.
Non mi sarei mai aspettato di trovarmi invece a vivere in quella lontana (e strana) nazione. Un incontro casuale a Londra, una relazione di 3 anni mantenuta in un modo o nell’altro, e poi via verso il continente nero nel 2007. 3 anni per prepararmi. TRE. Con il vantaggio di potermi godere quel torneo amichevole che schierava alcune tra le piu’ forti nazioni del mondo, compresa te, cara Italia.
La debacle del 2008, ai rigori contro i futuri campioni d’Europa, non mi preoccupava piu’ di tanto. Tanto l’anno dopo ti avrei rivisto giocare in un altro torneo, e stavolta, finalmente, dal vivo!
Non piu’ maxischermi o tubi catodici a separarci. Non piu’ 5-6 amici ma un intero stadio a cantare l’inno nazionale, tutti in piedi con la bandiera in mano. Ero pronto, e in quella prima partita non mi avevi deluso. 3-1 agli Stati Uniti e gioco a tratti spettacolare. Era il 15 Giugno 2009. L’ultima volta che ti ho visto vincere, piu’ di un anno fa.
Da allora, cara Italia, mi hai dato solo tremende delusioni, la maggior parte delle quali storiche. La prima sconfitta di sempre con una squadra africana, la peggiore batosta di sempre con il Brasile (almeno nel 1970 avevi segnato un goal) e l’eliminazione al primo turno. Qui tutti mi chievedano cosa era successo, e io ti difendevo. Dicevo che non avevi trattato il torneo seriamente, che la squadra era mezza nuova, che stavi sperimentando. Ti difendevo e andavo allo stadio pochi giorni dopo, ancora in piedi a cantare Fratelli d’Italia circondato da Sudafricani che non capivano, e ti difendevo anche dopo umilianti prestazioni come quelle a Ellis Park.
Ti difendevo perche’ pensavo di conoscerti. A differenza del Brasile o dell’Argentina, non ho mai aspettato prestazioni spettacolari da te. Tu eri sempre stata combattiva, mai capace di arrendersi. Magari ogni tanto ti affidavi a qualcuno che aveva piedi brasiliani sotto quella maglia azzurra (mi ricordo un tale Divin Codino, eroe fino all’ultimo rigore 16 anni fa), ma il resto della squadra era pieno di combattenti. Quante volte avevi un piedi fuori e riuscivi a dare gioia a 60 milioni di italiani (piu’ vagonate di milioni all’estero) all’ultimo minuto.
Ti difendevo. Ti amavo e ti amo ancora adesso, ma mi sento tradito.
Sei venuta qui in Sudafrica a difendere un titolo vinto in notti magiche a Berlino. Non eri amata in patria per lo strano miscuglio di giocatori un po’ troppo soldatini e con poco carattere. I tuoi eroi o sono scomparsi in questi ultimi anni, oppure sono semplicemente invecchiati. Ma non importa. Il girone era facile. Una squadra di narcotrafficanti, una squadra di giocatori di rugby che nel tempo libero facevano gli idraulici, e una squadra di una nazione che quando tu avevi il mondiale in casa non era neppure indipendente, ed e’ famosa piu’ per la qualita’ delle donne che per la qualita’ del calcio.
Ho preso Curtis e qui da Johannesburg mi sono sparato 1393km di aereo per andare a vederti. Un intero weekend passato in una bellissima citta’ che si affaccia sull’oceano, in uno stadio nuovissimo. Sabato e Domenica ho mangiato, bevuto e mi sono preparato, ero teso, ma fiducioso. Nello stadio di Green Point ho obbligato Curtis, irlandese, a vestirsi di azzurro per cantare l’inno. Le vuvuzela nemmeno ci disturbavano. E poi? Hai preso un goal ridicolo (un leit motiv di questo 2010) e sei riuscita a segnare grazie ad una papera del portiere.
Capita, era l’esordio. Nervosismo alle stelle e aspettative troppo alte. Cosi’ giovedi’ sono andato a prendere Ian, il mio amico dei tempi londinesi, arrivato direttamente da New York (New York! Capisci?) per vedere la sua beneamata nazionale italiana, lui che proviene da una famiglia che ti ha lasciato all’inizio del secolo scorso.
Una domenica ho guidato 358km (piu’ altri 358 al ritorno) per andare dalla parte opposta, a Nelspruit, in un altro stadio nuovo e bellissimo. Stavolta le vuvuzela erano piu’ antipatiche, ma quello che vedevo in campo era ancora peggio. Paura, incapacita’ di passare, mancanza di palle (ma chi sei, la Francia?). Mai 358km di macchina furono cosi’ tristi.
E pensare che, anni fa, mi sparavo volentieri centinaia di chilometri anche solo per passare un po’ di tempo con i miei amici veneti. Tornavo stanco, ubriaco, ma mai deluso. Sai, cara Italia, la delusione raddoppia la distanza e triplica la stanchezza.
Mi sono fatto coraggio. Ian e’ qui fino a settimana prossima, per gli ottavi, mi ero detto. Avevo i biglietti pronti. Bastava giocare l’ultima partita e semplicemente pareggiare o vincere. Classica situazione italiana.
Cosi’, stavolta con tutta la famiglia di mia moglie (sai, avevo preso i biglietti per tutti, per festeggiare con te!), siamo andati in un bellissimo Sabato pomeriggio ad Ellis Park. Per tifare, cantere l’innno con Ian, urlare, gioire e piangere di gioia.
E tu cara Italia cosa fai? Te lo dico io. HAI FATTO CAGARE.
Non ti sei guardata intorno negli occhi di migliaia di persone che hanno speso i risparmi di un anno economicamente pessimo per di venire a vederti?
In quei bambini che volevano una storia da raccontare, come la mia nel 1990, quando rubavo le nutelle alla Coop per poi strappare il punto gigante (che ne valeva 9 piccoli) per il concorso di Vinci Campione e vincere una maglia originale delle squadre dei mondiali?
Non hai pensato a quelli emigrati che hanno atteso per anni di poterti vedere dal vivo? Non hai pensato a quelli che si sono sposati e sono rimasti qui in Sudafrica vantandosi della nostra coriacea nazionale e sperando in almeno un passaggio di turno in due tornei?
Sei stata egoista, mia cara nazionale. Ti sei isolata, ti sei fatto odiare in una maniera che non vedevo dai tempi dell’allenatore pelato, e hai alienato i tuoi tifosi.
Ian, arrivato dall’America, vuole ora ripartire perche’ del Sudafrica e delle sue vuvuzela ne ha abbastanza. La gioia e’ andata via, e, per la prima volta in vita mia, a 20 minuti dalla fine ho abbandonato la stadio, perdendomi i tuoi 2 goal (3 partite e giochi gli ultimi 15 minuti ? e gli altri 255?) e quello dell’umiliazione finale.
No, non sono imbarazzato di essere italiano. Non lo sarei mai. Sono quelli che indossavano la tua maglia azzurra che dovrebbero esserlo. Hanno ucciso gli ultimi residui di quella gioia che solo nazioni calcistiche (e sono poi cosi’ tante) hanno fin dalla nascita. Tifare, piangere, urlare, bestemmiare, abbracciarsi, festeggiare con meridionali o milanesi, ubriacarsi quando si vince, ubriacarsi quando si perde dopo una grande partita.
Hai ucciso il bambino dentro tutti quei 30enni e 40enni che ad ogni partita si pitturano la faccia e sono pronti a vivere un carnevale personale.
Mi hai fatto sentire francese. E, per me, e’ peggio di morire.
Foto dall’ultima partita:
L’ultima vuvuzela
Ian sapeva gia’ tutto prima
Le squadre entrano in campo
La Slovacchia attacca (ovviamente)
Depressione
Uccidetemi ora