Ok, ragazzi, fa caldo, avete giocato per due ore e siamo arrivati ai rigori. Qui e’ dove vinciamo. Chi tira? – sta chiedendo Charl, l’allenatore
Ci sono ancora 30 gradi, anche se il sole ha iniziato a scendere. I tifosi al seguito, in attesa dell’eccitante (per loro) lotteria dei rigori, stanno urlando cori che sinceramente non riesco a capire. So che Lindsey e la sua famiglia siedono nell’angolo lontano, ma non mi volto a salutarli.
Penso a quando ho tirato l’ultimo rigore. Forse nel 96, o nel 97. Una vita fa. Di tutti i rigori tirati con la maglia dell’Oratorio o dell’AC Canegrate, ne ho sbagliato solo uno, parato da Refraschini un’amichevole (era il mio primo rigore tra l’altro). A livello minore, ho sbagliato il rigore nella finale di quello che era un torneo tenuto in alta considerazione, visto il numero di giocatori di calcio che passavano il pomeriggi li’: il torneo estivo dell’oratorio.
Me lo aveva parato ancora Refraschini, maledetto.
“I’ll take one”. Credo che la mia bocca si sia aperta prima ancora che potessi pensare. Nessuno vuole mai tirare un rigore in finale. Si vede nelle facce. Tutti sono a terra, boccheggiano, e si toccano i muscoli come se ora fossero cosi’ malandati da non riuscire a calciare un pallone verso la porta.
Altre 4 voci si uniscono alla mia. Poi piu’ nessuno. Non ci sono altri compagni che vogliono tirare il rigore. Siamo io, Mike, entrato nel secondo tempo, Stoj, il freddo bulgaro, Isaac, uno dei due neri nella nostra squadra e Dixon, anche lui entrato nel secondo tempo.
Capisco chi non vuole tirare. Se questa fosse la mia prima finale, non lo farei neppure io. Ma di finali ne ho perse cosi’ tante che sono semplicemente stufo. Olimpiade dell’alto milanese (un 1-4 con il comune di Arese), vari tornei con l’OSL e l’AC Canegrate, mentre a Londra mi sono sempre fermato prima delle semifinali.
Forse tra le vittorie dovrei contare quel torneo estivo a meta’ anni 90, vinto per 6-0 sotto un diluvio universale con nessuno a vederci. Era un torneo a 7 pero’, e non l’ho mai considerato (come il calcio a 5).
Guardo Charles, che, con il suo strano accento di Cape Town, mi dice che proprio non ha le forze per guardare i rigori. L’allenatore invece si avvicina e ordina a tutti di tenere la testa alta e non chiudere gli occhi nella sequenza che partira’ tra 5 minuti.
I giocatori in panchina, sostituiti nel secondo tempo, sono distrutti. Tra loro ci sono almeno 2 rigoristi, ma nessuno si aspettava di arrivare a questo punto.
La partita l’avevamo vinta, poi persa, in una successione di colpi di scena degno del miglior film sportivo americano.
2 ore prima entravamo nello stadio come underdogs, contro una squadra (Crusaders) arrivata molto piu’ in alto di noi nella classifica e che ci ha aveva battuto due volte, per 3-1 e 4-2.
Noi in una settimana avevamo perso il mio compagno di centrocampo (Wayne, per motivi personali) e la nostra ala destra (Tshibi, impegnato in una finale di cricket con la scuola, obbligato ad andarci, stranezze locali).
Eppure in quei primi 45 minuti, sotto un sole impietoso, avevamo capito due cose: 1) potevamo vincere 2) la partita non sarebbe terminata con 22 giocatori in campo.
Il possesso di palla era nostro per la maggior parte del tempo, e l’arbitro aveva deciso di sanzionare qualsiasi intervento.
Passati in vantaggio al 20′ (rubo palla a centrocampo, lancio Mark che passa a Malcolm, il nostro nanetto nero, che segna), solo 5 minuti piu’ tardi avevo preso un cartellino giallo per un fallo che normalmente sarebbe stato sanzionato con un avvertimento.
Giocare per 100 minuti sapendo di non poter commettere tackle o falli tattici era stato un bel problema per me…
L’arbitro poi si era scatenato, espellendo per proteste uno di loro dopo altri 5 cartellini gialli negli ultimi 10 minuti. Molti esagerati.
Il secondo tempo era iniziato come il primo, noi in controllo e loro disperati a trovare il goal del pareggio, con un uomo in meno. Purtroppo era successo, e su uno svarione della difesa, dopo un’ora pareggiavano i conti.
La partita di colpo si trasformava. Una nostra traversa, su punizione, altri cartellini gialli (sarenno 3 per noi e 8 + 2 rossi per loro alla fine….) e solita violenza dettata dal nervosismo.
Nei supplementari per ben 29 minuti succedeva poco. Fino all’ultimo minuto, quando uno dei loro cadeva in area. L’arbitro prima lo ammoniva per simulazione (espellendolo nel processo) per poi consultarsi col guardalinee e assegnare il rigore.
La partita era persa in quel momento. Ultimo minuto, rigore, e loro segnano. Io guardavo verso la tribuna e probabilmente stavo iniziando a piangere. Loro stavano gia’ festeggiano quando l’arbitro fischia e indica ancora il dischetto!
A quanto pare uno dei loro era entrato in area e il rigore andava ripetuto.
Se siamo finiti ai rigori, potete immaginare cosa sia’ successo. Rob aveva parato il rigore, proprio mentre l’arbitro fischiava la fine dei supplementari.
Con nella mente le ultime 2 ore, iniziamo a camminare verso il cerchio del centrocampo. 9 loro e 9 noi (ai rigori il numero deve essere pari, cosi’ 2 dei nostri vengono lasciati ai margini del campo).
Veniamo separati ulteriormente. 5 di noi da una parte, 5 di loro, e i restanti 8 dietro, a guardare.
Decidono di tirare prima loro, e segnano. Tocca a Mike, che si avvicina al dischetto, e segna, anche se il portiere tocca.
Tocca ancora a loro, e stavolta sbagliano, con Rob che para un altro rigore.
Capisco che tocca a me.
Tento di ricordarmi quello che il mister ci ha detto (scegliete un angolo e non cambiate mai idea) e inizio a camminare, da solo, verso il dischetto.
Dietro di me, i miei compagni.
Sugli spalti, Lindsey con la famiglia al completo, e i tifosi al seguito, ormai ubriachi, che tentano di urlare il mio nome (sento “olaaaaaaf, olaaaaaaaaf” sulle note di volare oohhh).
Metto il pallone e mi accorgo che, tutto sommato, sono solo 11 metri e la porta sembra davvero larga. Continuo a guardare l’angolo alla sinistra del portiere (il piu’ facile se si tira di destro) e posiziono il mio corpo per una breve rincorsa.
L’arbitro fischia, incrocio il tiro, portiere da una parte, pallone 7 metri dall’altra.
Sento l’urlo del pubblico, e urlo un “yes” sbattendo il pugno, per poi tornare dai miei compagni, al piccolo trotto.
Non e’ ancora finita. Tocca a loro. Ma sbagliano ancora! Rob para. E’ il turno di Stoj, che la infila in una posizione impossibile. Siamo 3-1 e se sbagliano vinciamo.
Il pallone tirato dal loro ultimo giocatore e’ ancora in orbita gravitazionale e io sto gia’ correndo, con tutti gli altri, verso Rob, che viene sommerso da una ventina di persone (incluso qualche tifoso che ha scavalcato le transenne).
Non mi sento cosi’ felice su un campo da calcio dal 2003, quando avevo vinto il campionato a Londra. Ma qui e’ diverso, qui e’ speciale. E’ una finale, Lindsey e’ venuta a vedermi e tra poco saliremo le gradinate per ritirare la medaglia e la coppa.
I momenti di gioia sono fuori di testa, ma dobbiamo applaudire gli avversari mentre salgono e ritirano la medaglia d’argento. Poi tocca a noi. Saliamo (non prima che io vada ad abbracciare Lindsey in tribuna), ritiriamo la medaglia, e il nostro capitano alza la coppa.
Poi, e’ tutto sfuocato. Mi ricordo litri di birra e vodka finiti nella coppa e bevuti sotto il sole, mezzinudi, senza fermarci mai. Mi ricordo l’uscita dalla stadio con mia moglie ad aspettarmi per portarmi a casa.
So che non le piace quando sono ubriaco, ma capisce, e continua a raccontarmi come la partita sia stata davvero lunga ma troppo emozionante per lei.
Dopo un po’ mi addormento in macchina, mi risveglio, e torno in coma.
Chiudo gli occhi e ripenso velocemente alla stagione, alla semifinale vinta con quel goal da 30 metri. Penso alle finali perse, alle lacrime da bambino, ma riesco a pensare solo una cosa: se Refraschini era qui, mi avrebbe parato quel rigore.
Poi richiudo gli occhi, e mi sveglio solo il giorno dopo, con la medaglia ancora al collo.